Un'avventura in terza persona horror che non è horror. Ha elementi survival, ma se li dimentica subito. Parla di videogiochi pur avendo con protagonista una suora. Affronta dei temi difficilmente toccati nel mondo videoludico, che in realtà sono più comuni di quel che si pensi. Racconta una storia tragica, ma con grande ironia. Dura davvero poco, ma alla fine si capisce che è il tempo giusto. Questo per dire che la recensione di Indika è un affare davvero complicato e probabilmente il voto alla fine sarà semplicemente espressione di un lancio di dadi. O forse no.
Religione?
Indika, in apparenza, è un gioco che parla di religione. Parla dei dubbi di una ragazza che, obbligata a farsi suora e a vivere in convento, si ritrova a fare i conti con la sua coscienza lacerata, sempre in lotta tra ciò che è costretta a essere e ciò che vorrebbe essere. Parla del suo rapporto con la virtù e con il peccato e di come affronti il desiderio di esprimere una sua parte repressa, che sembra sempre essere in procinto di esplodere per tutta la durata della storia. Perché in apparenza? La religione c'è, ed è una presenza quasi asfissiante: siamo in una Russia alternativa della fine del 1800, in cui la Chiesa ortodossa è uno dei poteri dominanti della nazione, quasi schiacciante in alcuni momenti. L'intera ambientazione è permeata della presenza del potere religioso, che si manifesta anche nei luoghi più sperduti attraverso le icone e i quadri che si trovano all'interno degli edifici visitabili.
La veste stessa della protagonista, sempre visibile sullo schermo (non per niente in una sequenza importantissima quanto liberatoria la telecamera cambierà completamente prospettiva passando alla prima persona) è una sua manifestazione, ma è nel finale, quando si arriva in città, che questa presenza si fa "divina", tra campane gigantesche ed edifici religiosi che sembrano delle montagne, lì dove gli uomini appaiono invece degli insetti insignificanti, che si muovono per una metropoli che non sembra essere stata fatta a loro misura.
Sogni a 16-bit
Quest'idea riempie così tanto la storia da essere stata integrata anche nei sistemi di gioco, con Indika che può trovare e accendere delle candele messe davanti a delle icone come forma di devozione, recitando ogni volta una preghiera. È un gesto meccanico, come quello del giocatore di fronte a ogni collezionabile di ogni videogioco. Ma è qui che Indika diventa profondamente ambiguo verso il giocatore, per provare a svelargli qualcosa che lo riguarda direttamente. Come detto, il tema della religione è solo apparenza e serve per raccontare altro. Indika parla per prima cosa di videogiochi come medium e lo mette in chiaro sin da subito, aprendosi con un sogno a occhi aperti che sembra essere uscito da un titolo per sistemi a 16-bit. Per l'intera avventura il passato di Indika sarà raccontato allo stesso modo, pur attraverso generi differenti (platform, puzzle game, un gioco di corse alla Super Sprint e altri ancora).
Il suo passato come donna è il nostro passato da videogiocatori. Quel che ricorda e che l'ha determinata per ciò che è, è ciò che ha determinato anche noi stessi, che veniamo invitati implicitamente a osservarci nell'atto di giocare. Ci troviamo di fronte all'evoluzione di qualcosa che siamo stati e che non possiamo ignorare, in cui eravamo più ingenui ma anche più liberi, fino alla perdita dell'innocenza, che si manifesta nel rifiuto della responsabilità dell'azione. Il sistema è fortemente straniante e possiamo considerarlo riuscito proprio in quanto tale, perché ci aiuta a penetrare nei meandri concettuali dell'opera. Quindi già qui dovrebbe essere chiaro che questa grande presenza di videogiochi nel videogioco non è solamente una scelta estetica, ma è una più propriamente tematica. Ma ci torneremo presto.
Un viaggio inaspettato
Come già detto, Indika di suo è un'avventura in terza persona, apparentemente horror, ma in realtà con pochissimi momenti che fanno davvero paura. Gli interessa talmente poco di spaventare il giocatore che la sezione più suggestiva da questo punto di vista è stata inclusa nella demo. In alcune sezioni ci sono delle presenze, ma in generale non ci sono dei nemici veri e propri, a parte quello visto appunto nella demo (un grosso cane nero), che però esaurisce presto il suo compito. Il grottesco, pur presente, ha una funzione essenzialmente espressivo descrittiva, con strane figure che appaiono brevemente per poi non avere alcun ruolo vero e proprio nella storia. Sono usate come pezzi dello scenario, contribuiscono all'atmosfera ma non hanno mai un ruolo attivo.
Probabilmente a un certo punto gli sviluppatori avranno avuto la tentazione di farli diventare dei pericoli, ma alla fine hanno scelto di rendere il racconto più fluido, preferendo lavorare sul ritmo, così da non ridurre l'attenzione verso la storia. Certo, ci sono dei puzzle e dei momenti action che rallentano un po' il flusso narrativo: ad esempio in una sequenza bisogna spostarsi con due ascensori per trovare il modo di attraversare una piattaforma, mentre in un'altra bisogna evitare dei pesci giganteschi; ma difficilmente vi bloccheranno per più di qualche minuto. Inoltre sono stati costruiti in modo da essere ben integrati nella narrazione, in particolare quelli in cui la lotta interiore della protagonista si manifesta come una forma di lacerazione della realtà, chiamandoci a spaccare e ricomporre lo spazio di gioco ascoltando il demonio o pregando.
Ambiguità
Ma ora facciamo un passo indietro e torniamo all'inizio: dopo il sogno a 16-bit, ci ritroviamo a controllare Indika in un mondo 3D strano e ammaliante, caratterizzato da un uso espressionista della fotografia. In alcuni passaggi sembrano esserci forti richiami al cinema di Andrej Tarkovskij, in particolare ad Andrej Rublev, ma nei primi piani c'è anche il Carl Theodor Dreyer di La passione di Giovanna D'Arco e Dies irae, oltre che innumerevoli altre pellicole successive che hanno guardato al maestro danese. Il punto di partenza dell'avventura mira a farci entrare il più possibile in contatto con la natura dei videogiochi contemporanei. Quando ci è stato chiesto di andare a prendere dei secchi d'acqua da un pozzo per riempiere il barile e siamo stati costretti a rifare la strada avanti e indietro cinque volte senza poter correre, ci è tornata alla mente l'intuizione avuta dai Tale of Tales con The Graveyard (un gioco molto breve in cui si doveva semplicemente guidare una vecchietta claudicante verso la panchina di un cimitero) e abbiamo visto correrci davanti agli occhi tutti quei giochi che vivono di loop elementari che richiedono di andare da un punto A a un punto B con motivazioni pretestuose, messe a fare da foglia di fico al vero movente del giocatore, che è quello di accumulare punti per diventare in qualche modo più forte.
Anche in Indika ci sono dei punti esperienza da ottenere, ma non hanno alcune funzione. Sono legati a un albero di abilità che non ha influenza diretta sul gameplay, se non a livello metavideoludico, pensato com'è per migliorare soltanto la velocità di accumulo dei punti esperienza stessi. Si tratta di un sistema autoreferenziale che, reso costantemente visibile sullo schermo, diventa un peso, sia per Indika, sia per noi che giochiamo, trasformandosi spesso in un vero e proprio oggetto di dibattito tra la protagonista e il diavolo, che va a mettere in crisi il concetto di scelta all'interno del videogioco e della realtà, lì dove scegliere diventa soltanto la ricerca di un consenso da parte del sistema, che ci assegna un punteggio, quindi ci giudica, per ciò che facciamo. Quando scegliamo in un videogioco siamo davvero liberi? Oppure siamo dei servi e stiamo facendo esattamente ciò che il sistema ha previsto che facessimo?
Anche in questo caso gli sviluppatori hanno cercato di straniare il più possibile il giocatore, mettendo in bella vista il sistema dei punti esperienza per poi definirlo continuamente "inutile" durante tutto il corso del gioco. Presto ci si rende conto che lo è davvero, ma nondimeno si finisce per guardare come cresce il punteggio ogni volta che ne riceviamo un po', come se non riuscissimo davvero a staccarci dall'idea di doverci in qualche modo potenziare per avere più possibilità di sopravvivere. Più si va avanti nel gioco, che dura meno di quattro ore, più quel punteggio diventa un peso, oltre che un memento della natura di ciò che stiamo facendo. Perché, anche quando ormai razionalmente è chiarissimo che quei punti non servono a nulla, siamo comunque attratti da essi e continuiamo a cercare il modo di ottenerli? Perché ci disturbano così tanto, come ci disturba l'essere sbeffeggiati dal gioco che ci ricorda continuamente la loro inutilità?
Nessun lieto fine
È qui che il dibattito tra Indika e Satana, suo compagno di viaggio per tutta l'avventura, assume una connotazione essenzialmente metavideoludica, pur essendo apparentemente incentrato sulla religione. I dialoghi tra i due vanno a toccare non solo la coscienza della ragazza, mettendo sempre di più in crisi la sua fede, ma anche il videogiocatore, che si ritrova suo malgrado al centro del discorso. È qui che diventa importantissima la presenza di un secondo compagno di viaggio, un prigioniero in fuga alla ricerca di un miracolo per salvare il suo braccio ormai in cancrena, che rappresenta la manifestazione del desiderio della ragazza, tanto da instaurare tra i due una tensione sessuale fortissima per tutta la storia. È con lui che Indika instaura un dibattito razionale costante e interessantissimo, scontrandosi più volte con la sua fede nella possibilità che il suo braccio venga salvato da un miracolo, ed è in lui che la ragazza proietta in qualche modo la sua vita, trovando uno spiraglio per fuggire dagli schemi cui sembra essere stata condannata. La ragazza si rende in qualche modo conto che la sua missione, ossia portare una lettera al patriarca di una vicina città, è solo un pretesto e che la lettera è il classico McGuffin di hitchcockiana memoria, utile per allontanarla dal convento, dove nessuno la sopporta e per dare al giocatore quella spinta di cui ha bisogno per credere nella necessità di ciò che deve fare, ossia per dare una motivazione a un viaggio che condurrà entrambi a un finale senza niente di lieto. Siate avvisati: manca una traduzione italiana.
Conclusioni
Indika è stato uno strano viaggio, che abbiamo vissuto tutto in una sera. Vuole essere un'esperienza narrativa e null'altro, lì dove offre un gameplay quasi da walking simulator nella sua essenzialità. Ciò che conta è il suo essere leggibile su più livelli e il non lasciare davvero niente al caso a livello di rappresentazione. Insomma, fatevi un favore e giocateci: vi ritroverete con un'opera capace di guardarvi dentro e di farvi sviluppare una visione diversa del videogioco. Oppure potete viverla solo come una buona storia.
PRO
- Storia profonda e curata
- Affronta tanti temi importanti
- Stilisticamente eccellente
CONTRO
- Qualche bug qua e là
- Può diventare poco digeribile