L'industria dei videogiochi come l'abbiamo conosciuta finora, almeno quella degli ultimi anni, è destinata al crollo. La situazione è abbastanza chiara e solo gli ingenui si ostinano a non vedere il progressivo deteriorarsi della situazione. Recentemente sono avvenuti due casi piuttosto eclatanti, che meritano di essere citati. Il primo è il fallimento di 38 Studios, cui dobbiamo Kingdom of Amalur: Reckoning. Mettiamo subito le mani avanti: la situazione economica della società è stata gestita molto male dalle parti in causa, sia dai dirigenti della stessa, sia dai creditori che hanno di fatto tagliato le gambe a ogni possibilità di salvataggio. Abbiamo affrontato più volte la questione, parlandone nelle notizie e seguendone le diverse, drammatiche fasi, che oltretutto hanno avuto risvolti umani pesantissimi.
La verità è che è difficile smaltire lo stupore nel vedere fallire una casa che ha prodotto un gioco capace di vendere un milione e mezzo di copie, com'è difficile accettare che la quota di copie vendute da raggiungere per mandare il tutto in paro fosse di tre milioni. Se ci pensate bene è pura follia. Punti di pareggio così alti per un singolo prodotto esistono solo nell'industria videoludica, forse nel cinema se pensiamo a qualche blockbuster di Hollywood. Ma torniamo a noi e teniamo il discorso "copie da vendere" per dopo. È di questa settimana la notizia del fallimento di Radical Entertainment. Tutti ricordiamo il team per la recente serie Prototype, arrivata al secondo capitolo.
Leggendo un po' la storia si scopre che si trattava di uno studio molto prolifico: dall'anno della sua fondazione, avvenuta nel 1992, a oggi ha realizzato più di trenta videogiochi, tra i quali alcuni Crash Bandicoot e Scarface: The World is Yours, per citarne un paio. Il primo Prototype (2009), la penultima opera nel loro curriculum, deve sicuramente aver segnato dei buoni risultati se Activision ha deciso di produrne un seguito. Quindi ne deduciamo con una certa amarezza che il destino di una società con tanti anni di esperienza sulle spalle e tanti dipendenti sia stato deciso soprattutto da Prototype 2, uscito non molte settimane fa. VGChartz ci dice che il gioco ha venduto un totale di quasi un milione di copie, molte meno del primo capitolo, ma comunque una cifra ragguardevole. A questo punto vi starete ponendo anche voi la nostra stessa domanda: quante diavolo di copie doveva vendere per andare almeno in pari?
Quello che i videogiocatori dovrebbero sapere
Ci sono delle informazioni che i videogiocatori dovrebbero sapere per affinare il loro discorrere di videogiochi. La prima, forse la più importante, è che quando si parla di costi di produzione non si fa più solo riferimento allo sviluppo del gioco, ma anche al contorno.
Forse il più grosso male del modello tradizionale del mercato videoludico è che il "contorno", soprattutto il lato marketing, è diventato la parte più costosa della filiera (sapete che produrre un singolo trailer di quelli che giornalmente vengono messi sui siti di tutto il mondo, Multiplayer.it compreso, può costare anche diverse migliaia di euro?). La stima media attuale è che per ogni dollaro speso nella produzione di un gioco, cinque finiscano nella promozione. Vi sembra una proporzione impossibile? Il paradosso è che nonostante la generazione attuale di macchine da gioco sia nella sua fase finale, e quindi svilupparci sopra costi di meno, in particolare per il fatto che ormai le caratteristiche hardware delle varie console sono ben conosciute, e le produzioni partono con una visione molto più chiara di come muoversi per ottenere i risultati voluti, i costi complessivi di produzione dei titoli tripla A sono schizzati alle stelle. Basta guardare due recenti super produzioni di Rockstar, L.A. Noire e Max Payne 3, per rendersi conto di quanto la situazione sia malata. Il primo ha venduto più di cinque milioni di copie, mentre il secondo ne ha piazzate circa tre (finora), eppure entrambi non vengono considerati dei successi commerciali.
Tutti i giochi citati, non solo quelli Rockstar, hanno delle qualità produttive molto alte, a prescindere dai gusti personali, e condividono un altro fattore che va considerato: un ciclo di sviluppo di più di due anni.
Due anni in cui team composti anche da centinaia di persone vengono pagati per produrre qualcosa che sarà un'incognita fino all'arrivo sul mercato. Insomma, per produrre un videogioco tripla A c'è bisogno di un mucchio di soldi. Se ci pensate bene, i tanto odiati DLC hanno preso la forma attuale per cercare di monetizzare produzioni colossali che, altrimenti, finiscono la loro vita commerciale dopo un paio di settimane dal lancio. Anni di sviluppo bruciati in una manciata di giorni...
Insomma, finché l'industria era di tipo solido e al massimo si parlava di tre ambiti da considerare (PC, console e console portatili), con il mercato console che occupava una quota intorno all'80% del mercato, si poteva sicuramente contare su una base utenza più ampia e più radicata, che non aveva vie di fuga. Attualmente il mercato si è frammentato e una grossa fetta di utenti è fuggita verso altri lidi videoludici. Le esigenze cambiano, i videogiochi devono adeguarsi. E in fondo ammettiamolo: può un'intera industria continuare a campare su una manciata di produzioni maggiori che prevedono rischi altissimi per colpa di investimenti ingenti, che spesso portano a perdite milionarie?
E l’utenza?
Siccome ogni sistema ha al suo interno i germi della propria distruzione, è probabile che il mercato attuale stia pagando colpe accumulate negli ultimi anni e, ammettiamolo, una certa miopia di fondo di operatori e utenza. Quest'ultima, coccolata e ghermita da mille sirene non si è accorta di alcuni suoi capricci che prima o poi avrebbero comportato la rottura del giocattolo (tira tira il pupazzo si rompe).
Mercati come quelli dell'usato, che nelle passate generazioni di macchine da gioco incidevano in modo relativo sul successo o meno di un titolo (se devi vendere 200mila copie per avere successo e non c'è un online da mantenere, è ovvio che ti preoccupi meno di qualcuno che acquista il tuo gioco senza farti arrivare nulla in tasca), sono diventati un peso ulteriore sul groppone dei publisher, che non sono certo delle onlus, ma i videogiocatori si sono dimostrati abbastanza ostili verso tutte quelle scappatoie mirate a eliminare il paradosso di far perdere soldi ai publisher per ogni copia usata venduta. Quando vai online rappresenti un costo per chi ti offre server e servizi vari. Se non c'è un introito di base, diventa una perdita. Da qui nascono i vari codici seriali per le modalità online. Il discorso è semplice e piuttosto lineare. Insomma, ogni tanto bisogna pure fare un po' di autocritica e capire che le condizioni cambiano, piaccia o meno. Se si vuole che un settore dell'intrattenimento rimanga in vita, bisogna foraggiarlo.
I nuovi videogiochi
Arriviamo così a gamba tesa sulla nuova industria, fatta di free2play, mobile, Facebook game e così via. I publisher sono entità gigantesche e ciniche per loro natura. Il loro scopo è crescere, prosperare, prevalere e, detto in soldoni, sopravvivere. Era ovvio che trovandosi in affanno con gli strumenti di guadagno tradizionali a loro disposizione, avrebbero guardato altrove, seguendo la scia chimica delle banconote. Tutti i nuovi modelli di videogiochi che abbiamo citato hanno in comune alcuni fattori determinanti: costi di produzione più bassi, tempi di sviluppo più controllati e utenza attirata dalla gratuità apparente o dai costi molto bassi dell'offerta, quindi meno pretenziosa in termini di marketing. Ad esempio sviluppare un gioco mobile costa infinitamente meno di quanto non costi svilupparne uno tripla A per console da salotto. Parliamo di poche migliaia di euro per i titoli di punta. Un prodotto importante per sistemi mobile come Infinity Blade sarà costato a Epic una frazione di Gears of War, garantendogli ottimi ricavi dalle vendite e un afflusso costante di denaro dalle transazioni in gioco. È stata la stessa Epic a dichiarare che si tratta del franchise che gli ha dato più frutti in termini monetari. Un discorso simile è fattibile per i titoli free2play, spesso rilasciati con poche mappe, modalità e feature in generale, per iniziare ad ammortizzare i costi proseguendo con lo sviluppo in itinere. In caso di insuccesso tutto si blocca e si passa ad altro senza starci a pensare troppo (vedi i coreani che da questo punto di vista sono avanzatissimi). Cerchiamo di tirare le somme. A molti videogiocatori, soprattutto quelli più tradizionalisti, non piacciono i nuovi modi di videogiocare, ma come dare torto all'industria che li abbraccia per provare a sopravvivere? I neo-videogiochi, meglio definibili come "servizi videoludici", hanno utenti che frignano meno (vedi le ultime uscite di Reggie Fills-Aime, il presidente di Nintendo of America, sui giocatori incontentabili) e che non manifestano insoddisfazione in modo plateale (in fondo stanno giocando gratis o dopo aver speso pochi spiccioli, che gli importa di qualche bug o imperfezione?), distribuiscono il rischio in modo più uniforme e meno gravoso, non subiscono usato o pirateria e non hanno costi per la distribuzione fisica. Certo, anche questo modello prima o poi entrerà in crisi e sicuramente il videogioco tradizionale non morirà completamente, ma intanto il futuro a noi più prossimo appare fatto di un'offerta diversificata, piaccia o meno, con colossi come Crytek o Valve che stanno spostando il focus sui mercati alternativi per riuscire a rimanere in vita e con le nuove console che si stanno attrezzando in tal senso per permettere l'introduzione del free2play anche nei salotti, così da provare a conquistare l'ultimo baluardo del videogioco tradizionale. Come al solito non c'è niente di bello e niente di brutto, è solo una mera questione di soldi. E in fondo diciamocelo: la situazione attuale ce la siamo cercata.