Nella recensione di Cocoon, Giulia Martino ha descritto in maniera impeccabile l'ultima pubblicazione del designer Jeppe Carlsen: "La dimostrazione di come l'eleganza passi sempre dalla semplicità e da una chiara idea di ciò che si è". Senza dubbio, l'asciuttezza delle meccaniche e la fluidità con la quale si susseguono sullo schermo costituisce la radice del fascino del progetto, che riesce a farsi giocare con assoluta facilità, anzi, con totale naturalezza: tutto ciò che accade nel mondo virtuale si verifica senza il minimo attrito, tratteggiando un'esperienza che scorre come l'acqua di un ruscello, in un moto che sembra far parte delle leggi della natura. Ma se giocare a Cocoon è semplice come leggere le lancette sul quadrante di un orologio, l'atto di costruirlo è invece complesso come il lavoro di un orologiaio, che è costretto a studiare per centinaia di ore il posizionamento di ogni microscopico ingranaggio.
Jeppe Carlsen non è affatto l'ultimo arrivato: siamo noi ad aver imparato troppo tardi a conoscere il suo nome e soprattutto ad attribuirgli il giusto peso. Nel suo passato c'è la progettazione delle meccaniche di gioco di LIMBO e INSIDE, opere di cui è stato gameplay designer, ma al momento della loro pubblicazione l'attenzione era tutta concentrata sulla figura di Arnt Jensen, direttore di ambedue i progetti e fondatore di Playdead, nonché sulla disputa con Dino Patti, sfociata nell'abbandono da parte di quest'ultimo e nella formazione di una nuova gestione che deve ancora dare i suoi frutti. È solo l'ultima delle occasioni per rimarcare il valore occulto delle persone che creano i videogiochi, o meglio di tutte quante, e non solo di coloro che nella maggior parte dei casi finiscono per sedere di fronte alle telecamere. Chissà quante altre promesse di questo calibro si nascondono dietro le scrivanie degli studi di sviluppo, e chissà quante non potranno mai esprimere il massimo del proprio potenziale.
Nel 2017 anche Jeppe Carlsen ha lasciato Playdead per "inseguire la creazione di giochi dai tempi di sviluppo più brevi", una dichiarazione che riassume in maniera quasi ironica parte della filosofia emersa sulle sponde di Coocon. Nel corso dell'ultimo lustro Carlsen è comparso nei ringraziamenti di What The Golf?, di Ethereal, persino di Psychonauts 2 di Double Fine Productions, ma la maggior parte dei suoi sforzi si sono diretti nella fondazione di Geometric Interactive, studio esordiente nei confronti del quale è imperativo non commettere gli stessi errori del passato: accanto a lui ci sono infatti il sound designer e cofondatore Jakob Schmid, l'art director Erwin Kho, i gameplay designer Asger Kirkemann Strandby, Martin Fasterholdt e Fran Avilés, oltre a tantissimi altri talenti straordinari.
Tutti quanti si sono mossi in concerto per realizzare Cocoon, un videogioco che, se il mondo si trovasse improvvisamente svuotato di produzioni monumentali quali The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom e Baldur's Gate 3, punterebbe deciso verso il premio per il Game of the Year. L'opera supervisionata da Jeppe Carlsen è infatti una vera e propria masterclass di game design, una piccola poesia in movimento che incarna fino al midollo l'essenza stessa dei videogiochi: qual è la magia che Geometric Interacive è riuscita a racchiudere nei suoi universi tascabili?
La vista, il tatto, l'udito
Una delle prime cose che si notano mettendo mano a Coocon è la totale assenza di scritte, di testi, di interfacce in sovrimpressione e di qualsiasi genere di comunicazione che esuli dal naturale scorrere delle immagini sullo schermo. Si torna allo stato primordiale del videogioco, nonché all'essenza del suo significato etimologico: è sufficiente giusto la presenza del "video" per condurre al "gioco", senza la benché minima necessità di alcuna sovrastruttura artificiale. L'opera si apre con una sequenza che spiega tutte le meccaniche fondamentali senza bisogno di suggerire nulla, rendendo quello dell'apprendimento un processo del tutto naturale, come se il giocatore fosse un pesce appena venuto al mondo: è già capace di nuotare, tutto quel che serve è impresso a fuoco nel suo DNA, mentre a svolgere il resto del lavoro è solamente l'istinto. Una premessa, questa, che si risolve nella più grande peculiarità dell'opera: come sottolineato da Giulia Martino, per il giocatore "le opzioni sono soltanto due: muoversi o utilizzare il tasto azione".
Realizzare un videogioco basato su un singolo pulsante è quanto di più difficile si possa immaginare nell'industria contemporanea: riuscire a farlo in un costrutto stratificato come Cocoon è un traguardo al limite dell'incredibile. Le meccaniche non cessano mai d'impilarsi l'una sull'altra, ci si trova continuamente di fronte a nuove situazioni, eppure quella costante non cambia mai, bisogna sempre limitarsi a muoversi lungo lo scenario e utilizzare un semplice input per interagire con lo stesso. L'assenza di tutorial espliciti è mitigata da un lento accompagnamento indiretto del giocatore che cresce al mutare dei panorami, posizionandolo sempre di fronte a piccoli segmenti asciutti e compassati, pensati appositamente per fargli interiorizzare in maniera quasi inconscia il funzionamento del gioco, per poi gettarlo nel fitto di circostanze inattese solo quando l'ha padroneggiato senza rendersene nemmeno conto.
Cocoon non è un videogioco simile a The Witness, nel quale restare bloccati è parte integrante dell'esperienza, in cui capita di guardarsi attorno e non avere la minima idea di cosa fare: è più vicino a una pioggerellina che si fa più intensa fino a diventare uno scroscio, come un viaggio nel quale si prende il ritmo e si riescono a gestire in maniera quasi inspiegabile situazioni del tutto sconosciute. Di tanto in tanto s'incontra quell'enigma che porta alla paralisi per qualche manciata di minuti, ma non esistono scogli né muri, nella maggior parte dei casi la soluzione più semplice è anche quella corretta, ed è ancor più sorprendente come ciascun ostacolo venga superato sempre in maniera consapevole, mai procedendo per tentativi, attraverso la costante assimilazione delle lezioni impartite dal solo senso della vista.
Coprotagonista del piccolo scarabeo umanoide è senza dubbio la musica, più in generale il suono, che diventa parte integrante dell'esperienza reagendo in maniera responsiva e dinamica a ogni passo del suo viaggio. Non lo fa in maniera ovvia e rumorosa, come potrebbe accadere in un capitolo di Zelda punteggiato degli inconfondibili jingle che risuonano all'apertura di una porta, ma in modo decisamente più sottile, sussurrando melodie che crescono lentamente d'intensità nel momento in cui s'imbocca la direzione giusta, addirittura nell'istante stesso in cui si ha giusto la prima in una lunga catena di intuizioni corrette. Non è stata una sorpresa scoprire che proprio Carlsen e Jakob Schmid sono i fondatori di Geometric Interactive: le fatiche di cui entrambi sono responsabili si muovono in perfetta sincronia, realizzando un connubio fra suono e gioco che si posiziona senza dubbio fra i migliori mai incontrati nei confini del medium.
Così complesso da sembrare semplicissimo
Per chi lo gioca, Cocoon diventa seconda natura nell'arco di pochi minuti. Basta affrontare anche solo il primo enigma per prendere in mano la situazione e procedere spediti durante tutte le cinque ore che costituiscono l'esperienza. Ma il dietro le quinte è qualcosa di impressionante, in determinate situazioni al limite dell'inquietante. Per chi ancora non lo sapesse, Cocoon si fonda su una meccanica molto particolare: è possibile "uscire" dal mondo in cui ci si trova e portarselo appresso nella forma di una biglia che può essere sfruttata per interagire con l'ambiente circostante. Parlare estensivamente del funzionamento dell'opera sarebbe un crimine, perché chiunque merita di vivere l'esperienza in totale autonomia: nella sostanza, questa piccola premessa apre un immenso ventaglio di dinamiche, dal momento che si possono depositare mondi all'interno di altri mondi, caricarsi un mondo sulle spalle e saltarci dentro al bisogno, riemergere nei confini di ulteriori mondi sconosciuti al fine di svelare i segreti che nascondono.
La filosofia alla base di Cocoon orbita attorno all'idea di posizionare sempre il giocatore nel posto giusto al momento giusto: è impossibile rimanere bloccati, non esiste alcuna forma di "fail state" - ovvero il game over - mentre la progressione è tanto organica da risultare estremamente lineare. Pad alla mano, la sensazione è quella di trovarsi in una "macchina di Rube Goldberg", quei costrutti che attivano meccanismi semplici nella maniera più assurda possibile e con precisione assoluta, al punto tale da trasmettere l'illusione di trovarsi in un videogioco semplice, minimalista, ridotto all'osso. La verità è che l'architettura di Cocoon nasconde la sua enorme complessità oltre il velo delle sue interazioni asciutte: se già quella di tentare di realizzare un singolo mondo virtuale interconnesso si è dimostrata una missione impossibile per la maggior parte degli sviluppatori, riuscire a portarne avanti cinque in contemporanea è un'impresa sorprendente.
La meccanica del salto fra i mondi, che già di per sé mette in imbarazzo qualsiasi produzione simile, apre alla possibilità di muoversi in un battito di ciglia, senza caricamenti espliciti né mascherati, dentro e fuori da livelli indipendenti e interconnessi che sono stati ricamati con una cura straordinaria, progettati al millimetro per mantenere il giocatore sul binario prestabilito e ridurre al minimo le forzature. È questo il grande incantesimo alla base di Cocoon: trasmettere l'illusione della semplicità attraverso la facilità d'uso, in un'esperienza che è stata invece pensata, testata e rifinita per migliaia di ore, fino a presentarsi perfetta nell'essenza.
I mondi sono la chiave per risolvere la totalità degli enigmi, anch'essi frutto di uno studio certosino volto a far apparire impegnativo ciò che invece è banale, con l'effetto collaterale di far sembrare semplici gesti in realtà straordinari. Arrivano momenti in cui tutto a un tratto si realizza "ciò che si sta facendo", "ciò che è appena successo nello schermo". Allora non si può provare altro che stima per la mente di Jeppe Carlsen: capita sempre più di raramente, nei confini di un videogioco, di rimanere meravigliati di fronte allo svolgimento di una meccanica, senza che ci sia il bisogno dell'intervento di una grande storia, di una spettacolare sequenza cinematografica o di un violento combattimento al cardiopalma.
Cocoon, un potenziale Gioco dell'anno
"COCOON non è un'avventura dalla forte trazione narrativa; non vuole mettere al centro del gameplay dinamiche violente; non spinge il giocatore a lambiccarsi il cervello per ore su enigmi apparentemente irrisolvibili", concludeva Giulia Martino nella sua recensione. Questo pensiero si può sintetizzare nel fatto che Cocoon non sembra qualcosa che è stato partorito dall'industria dei videogiochi contemporanea: si presenta come un'entità che è germogliata naturalmente, lontano dalle influenze e dalle esigenze dei mercati, come una creatura tutt'altro che artificiale, volenterosa di scorrere come l'acqua e semplicemente di esistere. È un peccato, in questo senso, che la sua esistenza - in mezzo all'oceano di pubblicazioni di questa fine del 2023 - rischia di passare in sordina, trasformandolo in una bellissima cometa destinata a svanire rapidamente nella notte.
In un anno che ha conosciuto il passaggio di titani del calibro di The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom e Baldur's Gate 3 sarebbe impensabile puntare tanto in alto, ma non è difficile immaginare un mondo parallelo - magari contenuto in una biglia - in cui il titolo di Jeppe Calrsen siede sul trono del Game of the Year. Giocate Cocoon: non solo perché è una masterclass di game design, non solo perché incarna l'essenza più pura e semplice del termine videogioco, ma perché rappresenta un'alternativa eccellente, una via di fuga creativa dalle regole del mercato e incarna la volontà di sfuggire alla routine per abbracciare qualcosa di completamente diverso nella forma, nella durata e soprattutto nell'ambizione.