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I videogiochi hanno un problema con la violenza

La maggior parte dei grandi videogiochi, quelli che vendono milioni di copie e vincono i premi più ambiti, sono ancorati a meccaniche di gioco violente. Perché?

SPECIALE di Lorenzo Mancosu   —   25/11/2023
I videogiochi hanno un problema con la violenza

Al giorno d'oggi, scegliere di inserire le parole "videogiochi" e "violenza" nella stessa frase è un po' come danzare nel mezzo di un campo minato. Sono decenni che è all'ordine del giorno imbattersi in analisi disinformate e superficiali che tentano di criminalizzare la violenza rappresentata nei videogiochi, associando gesti riprovevoli compiuti nel mondo reale alla cattiva influenza delle esperienze virtuali, cercando con il lanternino una qualsiasi correlazione fra l'imputato del caso e un fantomatico videogioco che si riveli il vero responsabile di una tragedia. Ma non è quello di cui vorremmo parlare oggi.

Spesso, invece, si critica l'esasperazione della violenza all'interno dei videogiochi, scatenando casi di stato come quelli che colpirono la pubblicazione originale di titoli come il Death Race di Howell Ivy nel 1976, che si prese le prime pagine dei giornali dal momento che invitava: "A investire le persone". Un film, questo, che è andato in onda tale e quale nel 1992, anno di lancio di Mortal Kombat, la cui natura sanguinaria portò alla convocazione di due diverse udienze al Senato degli Stati Uniti, conducendo infine all'emersione dell'organo ESRB che ancora oggi appone i limiti d'età sulle copertine dei prodotti interattivi. Ma non è neppure di questo che vorremmo parlare oggi.

The Last of Us Parte 2 è giustamente considerato pioniere dell'evoluzione narrativa del medium, ma usa meccaniche violente
The Last of Us Parte 2 è giustamente considerato pioniere dell'evoluzione narrativa del medium, ma usa meccaniche violente

I videogiochi hanno un problema, specialmente quelli più "grandi", quelli che vendono milioni di copie e puntano a vincere il premio del Game of the Year, facendosi ambasciatori della magnificenza che il settore sta tentando d'esportare fuori dai propri confini espressivi. E quel problema risiede per l'appunto nell'estrema difficoltà che trovano nel separarsi dalla violenza, o meglio, dalla presenza costante di meccaniche di natura violenta, per quanto buffe e stilizzate possano apparire al primo sguardo: non importa che si tratti di Super Mario, di The Legend of Zelda, di Pokémon o di Minecraft, perché ci saranno Goomba da schiacciare, Boblin da abbattere, mostriciattoli da sconfiggere o zombi da ridurre in brandelli di carne marcia.

Se nel mondo del cinema è naturale attendersi la vittoria dell'Academy Award per il miglior film da pellicole come le recenti CODA e Nomadland, se nell'animazione contemporanea ci sono prodotti come Your Name di Makoto Shinkai che si rivelano ricchissimi blockbuster, se i romanzi di Colleen Hoover stanno dominando gran parte delle classifiche di riferimento, è praticamente impossibile che fenomeni di natura e dimensioni simili si verifichino nei confini del nostro medium, ormai legato mani e piedi a un modello ben definito che guida la maggior parte delle produzioni più apprezzate. Perché i grandi videogiochi non riescono a sganciarsi dalla violenza?

Perché i videogiochi sono violenti?

Non importa quanto un grande videogioco sia scanzonato o divertente, la violenza rimane una costante
Non importa quanto un grande videogioco sia scanzonato o divertente, la violenza rimane una costante

Non ci sarebbe nemmeno bisogno di dirlo, ma è bene precisarlo: non tutti i videogiochi sono violenti. Esistono interi sottoboschi, da quello dei puzzle game fino ai titoli sportivi, dalle simulazioni fino alle avventure grafiche e a tantissime altre ispirazioni, che sono riuscite a ritagliarsi una piccola dimensione sicura senza dover far ricorso a combattimenti, fendenti o meccaniche relative alla morte. Di contro, non esiste blockbuster né "grande" videogioco che riesca a maturare slegato da dinamiche di questo tipo, quasi fossero diventate condizione necessaria e indispensabile per raggiungere il grande successo nel settore. Guardando i vincitori delle ultime nove edizioni dei The Game Awards, non è capitato neppure una volta che a portare a casa il GOTY fosse un videogioco scevro di meccaniche di natura violenta, mentre fra i candidati di maggiore rilievo - nell'ottica dell'impatto percepito sulla "maturazione" del medium - s'incontrano opere come The Last of Us Parte 2, God of War, Red Dead Redemption 2, The Witcher 3: Wild Hunt, Sekiro: Shadows Die Twice, e via dicendo. Si tratta di una costante pervasiva dell'intera storia dell'industria, fin dal momento dell'emersione delle prime opere interattive come Spacewar!, la cui popolarità fu tale e tanta da cancellare per lungo tempo dai registri della storia le tracce dei piccoli progetti che vennero prima di lui, come Tic Tac Toe e Tennis for Two.

Ci sono diverse ragioni se l'evoluzione dei videogiochi ha imboccato questa direzione, ma ce n'è una in particolare che regna sovrana sopra tutte le altre: lo strumento del conflitto e il contatto che si risolve nello scontro sono di gran lunga le interazioni più semplici e immediate da inserire nella simulazione di uno spazio virtuale. L'atto stesso di fare fuoco con un'arma è il gesto fisicamente più semplice che si possa compiere: basta tirare il grilletto con un dito, in maniera non dissimile dal modo in cui si clicca il tasto sinistro di un mouse. Quando l'interazione e la rappresentazione visiva hanno iniziato a mescolarsi, nei primi anni '60, hanno generato un big bang che si è risolto in una sorta di condanna: l'inseguimento della simulazione grafica di uno spazio virtuale nei confini dei computer, assieme alla necessità d'implementare un'interazione sfidante, hanno prodotto un sistema perfetto per premiare la messa in scena del conflitto. Oggi siamo portati a non pensarci, ma a ben vedere l'intero "sistema" videogiochi - compresi i mercati che gli orbitano attorno - è stato costruito nel tempo per accomodare nel modo migliore possibile uno spazio virtuale soggetto a interazioni violente. Basta riflettere semplicemente sul modo in cui sono fatti i moderni gamepad, sul funzionamento dei sistemi di controlli, sull'architettura delle schede grafiche discrete: tutto, dalle piattaforme fino alle periferiche di input, si è mosso nella direzione di facilitare il movimento dell'avatar all'interno di uno spazio virtuale sempre più vasto e dettagliato, spianando la strada all'interazione di tipo violento, arrivando addirittura a includere dei veri grilletti sui dorsali dei controller. Il problema più preoccupante, in questo senso, è che visto il coinvolgimento di tutti i fattori produttivi, lo scorrere del tempo renderà sempre più difficile imboccare una direzione differente.

I controller moderni sono progettati per favorire il movimento nello spazio, e ora sono anche dotati di grilletti come quelli delle pistole
I controller moderni sono progettati per favorire il movimento nello spazio, e ora sono anche dotati di grilletti come quelli delle pistole

In passato la questione è stata trattata da molti sviluppatori e analisti, tra cui Chris Franklin - la mente dietro Errant Signal - e soprattutto Chris Crawford, uno dei più grandi game designer nella storia di Atari nonché il fondatore della GDC, che ha abbandonato definitivamente l'industria proprio a causa dei limiti che iniziava a scorgere in quella ricetta di base. "Il problema con l'espressione artistica nei videogiochi", diceva Crawford, "risiede nel fatto che il gioco è fondamentalmente ancorato alla simulazione di uno spazio, e i sistemi di espressione che puoi mettere a disposizione del giocatore sono estremamente limitati". Una struttura, quella dei videogiochi, che non ha abbracciato la violenza per rispondere a una precisa scelta artistica, ma perché si è sempre trattato dell'interazione che incontra meno resistenze e frizioni in fase di sviluppo. L'esempio focale portato da Franklin risiede nei metodi d'interazione con un personaggio digitale: è migliaia di volte più semplice, sul piano della programmazione, crivellarla di colpi, abbatterla, anziché tendere la mano e stringere la sua, avviando una conversazione complessa. Il che si potrebbe riassumere nella grande problematica che mantiene il videogioco ancora indietro rispetto ad altri media: quello di sparare con un'arma da fuoco è un gesto semplicissimo, si tratta letteralmente di muovere un dito, ma come si può invece rappresentare attraverso una meccanica l'innamoramento? E qualcosa come la depressione, invece? Senza alcun dubbio esistono dei metodi per farlo in maniera convincente, ma anche il solo lavoro di concetto necessario per raggiungere risultati soddisfacenti è infinite volte più impegnativo rispetto alla messa in scena di uno scontro, diretto e senza fronzoli.

Non si può infine ignorare un elemento dotato di un peso fondamentale, ovvero la pura e semplice richiesta. Il pubblico brama videogiochi violenti, ne è affamato, esattamente come ama la sfida e la competizione espresse per mezzo di altri strumenti socialmente accettabili come lo sport. Per il professor Michael Kasumovic, che al riguardo ha pubblicato uno studio poi riportato su Medical Science, "I videogiochi violenti si prestano a soddisfare i nostri bisogni psicologici perché sono progettati in un modo da consentire di ottenere un senso di controllo e realizzazione". Il contenuto dello studio non è assolutamente una novità, né tratta una caratteristica esclusiva del settore: è sufficiente analizzare le classifiche dei fumetti più venduti per toccare con mano la netta supremazia dei manga impropriamente categorizzati come "battle shōnen", ma tale discorso si può estendere anche anche al cinema di massa, così come all'intera storia della letteratura e alla sua stessa genesi. Non c'è niente di male in questo genere di deriva, l'evoluzione tecnica del settore ha senza dubbio reso i videogiochi violenti i più rifiniti e avanzati in circolazione, ma è evidente che rischia di occultare ancora a lungo il potenziale inespresso dei videogiochi, medium che fatica a colmare l'ultimo grande fossato che ancora lo separa dalle altre arti. Basti pensare al fatto che, mentre i sistemi di combattimento hanno conosciuto un'evoluzione straordinaria nel corso degli ultimi trent'anni, quelli che regolano per esempio i dialoghi sono rimasti estremamente vicini ai modelli degli anni '80.

Premi A per amare, premi B per attaccare

Anche le più celebri storie d'amore dei videogiochi sono costrette a maturare su fondali violenti
Anche le più celebri storie d'amore dei videogiochi sono costrette a maturare su fondali violenti

Uno degli effetti collaterali più impattanti di questa natura dei videogiochi si risolve nello scontro che sempre più spesso sorge inevitabilmente tra l'intento dell'autore, l'obiettivo del progetto, e le effettive dinamiche di gioco. Final Fantasy X, per esempio, è tutt'ora ricordato come uno fra i più grandi blockbuster che si sviluppano ancorati al racconto di una pura e semplice storia d'amore, ma quella narrazione passa attraverso lo sterminio dei mostri e degli avversari che popolano le regioni di Spira. Un conflitto, questo, molto simile a quello che ha inquinato il reboot del 2013 di Tomb Raider: intento a raccontare le origini, le prime avventure e la maturazione di una giovanissima Lara Croft, ancora nei panni di archeologa, scelse inspiegabilmente di trasformarla in un'inarrestabile macchina di morte non appena s'impadroniva della prima pistola, resuscitando in un battito di ciglia l'assassina degli anni '90. Ancor più discusso è stato il caso di LA Noire, titolo attorno al quale il saggista Bob Case - in arte MrBTongue - ha sviluppato un'attenta disamina, osservando quanto fosse assurdo sbloccare un obiettivo che premia il centesimo omicidio del protagonista: un poliziotto che diventa pian piano più letale di qualsiasi gangster della città, per giunta nei confini di una produzione che, più di moltissime altre, aveva tentato di fuggire dagli standard.

Si tratta ovviamente di un'estensione delle esigenze del mercato di massa, delle aspettative che accompagnano le produzioni AAA, impegnate a rispondere a una domanda consolidata da decenni, il cui peso è tale da impattare sulle fasi di preproduzione di qualunque progetto: da un videogioco di Rockstar Games, ci si attende un certo tipo d'esperienza. Il testamento di artistico di Dan Houser, raccolto in Red Dead Redemption 2, racconta il viaggio di Arthur Morgan offrendo una disamina molto interessante del "videogiocatore medio" di Grand Theft Auto, strutturando l'interezza della narrazione attorno al percorso di redenzione del protagonista. Redenzione che - secondo la visione dell'autore - dovrebbe trascendere anche il confine dello schermo: se all'inizio dell'avventura è facile che gli appassionati godano dell'esperienza sandbox e si dedichino ad atti di violenza indiscriminata, è molto difficile che la stessa cosa accada a chiunque abbia assimilato la storia del pistolero, che proprio dagli atti violenti cerca di sfuggire con tutta la forza che ha in corpo. Forse, lo storico autore di Grand Theft Auto ha voluto dire addio a questa fase della sua vita mettendo in piedi una terza redenzione, ovvero quella del sé stesso come autore.

To the Moon è uno degli esempi più celebri di pura e semplice storia d'amore, ma non è certo un colossal
To the Moon è uno degli esempi più celebri di pura e semplice storia d'amore, ma non è certo un colossal

Certo è che la violenza toglie spesso spazio alla trattazione di altre tematiche, si ritaglia un ruolo da coprotagonista forzata, al punto tale che oggi, fra le migliori storie d'amore raccontate dai videogiochi, le classifiche stilate tramite i voti degli appassionati tendono ad annoverare il rapporto padre figlio fra Kratos e Atreus, quello fra Joel ed Ellie, l'incontro fugace tra Ellie e Riley, la succitata vicenda che lega Tidus e Yuna, le romance che siedono al centro di Mass Effect o quelle nei confini di The Witcher, in opere il cui nucleo di gameplay risiede sempre in un mondo governato dal solo conflitto. Se, in altri media, ci sono veri e propri colossal - spesso si tende a portare l'esempio di Titanic - che orbitano principalmente attorno a una storia d'amore, i videogiochi non sono mai riusciti a garantirle un ruolo di assoluta preminenza nei confini di una grande produzione. A passare in secondo piano sono invece progetti come To the Moon di Freebird Games, piccola avventura costruita su RPG Maker XP che riesce a conservare l'amore come unica anima del progetto per l'intera durata dell'esperienza, sforzandosi tuttavia a raggiungere tale obiettivo asciugando al massimo l'interazione meccanica, riducendola ai minimi termini per scommettere tutto sulla sicurezza della narrazione.

Sono state proprio riflessioni di questo genere a convincere il designer Toby Fox della validità dell'idea alla base del suo Undertale, piccolo cult del mercato indipendente che è nato proprio per rispondere alla sua esigenza di "parlare con i nemici", di utilizzare il dialogo e altre forme d'aiuto come strumenti alternativi al conflitto, spingendo il giocatore a porsi domande sull'impatto di una scelta violenta. Si tratta tuttavia di mosche bianche, di piccole produzioni che rifuggono lo standard aureo per trattare tematiche di nicchia, per comunicare emozioni particolari, costrette ad affidarsi alle poche meccaniche che sono state ricercate e restando sempre consapevoli di far parte di un minuto sottobosco, esattamente come nei casi di gemme non-violente quali Outer Wilds o Kentucky Route Zero. In fin dei conti si torna sempre al punto di partenza: per mezzo secolo ci si è mossi per limare i sistemi di combattimento, per rendere più divertente e appassionante il conflitto, per regalare sfumature creative anche alle più colorate e scanzonate battaglie - come quelle di It Takes Two e di Super Mario - senza mai investire nello studio di un'alternativa alla sfida e al conflitto.

Certe cose non cambiano mai

Ci sono videogiochi come Kentucky Route Zero che adottano una grammatica differente, ma commercialmente sono formiche accanto ai giganti
Ci sono videogiochi come Kentucky Route Zero che adottano una grammatica differente, ma commercialmente sono formiche accanto ai giganti

Per la maggior parte degli sviluppatori che si sono espressi al riguardo non esiste una via d'uscita: fin dai primi vagiti dei videogiochi si è instaurata la dittatura della simulazione di uno spazio virtuale, gettando le solide fondamenta su cui si sono inerpicati cinquant'anni di ricerca della violenza interattiva, in ambito software quanto sul piano dell'hardware. È un male? Non lo è intrinsecamente, dal momento che l'industria contemporanea dei videogiochi si è dimostrata un ricettacolo capace di dare vita a centinaia di esperienze differenti, alcune più diffuse e redditizie, altre parte di un movimento sotterraneo. Di contro, è difficile che il medium si possa dire pienamente maturo finché non riuscirà a colmare le mancanze che ancora lo separano dalle altre arti, ed è ancor più difficile che ciò possa accadere finché delle produzioni eversive non riusciranno a raggiungere i grandi palchi dell'industria.

Il conflitto, lo scontro è e sarà sempre l'interazione più semplice e immediata da implementare in un videogioco, quella più richiesta dal pubblico, quella capace d'incontrare meno ostruzioni possibile in fase di concetto e di sviluppo, e va benissimo così. Forse, quel che sarebbe bene fare, è rallentare giusto un pochino con la violenza: capita sempre più spesso d'imbattersi in esperienze in cui l'azione entra in completa dissonanza con la narrazione e con gli obiettivi dichiarati dagli autori, producendo amalgami grotteschi in cui bisogna abbattere orde di nemici solamente perché il mercato l'ha imposto dall'alto, perché così è sempre stato fatto, perché è più facile, perché la violenza fa parte del genere umano.