Qualche settimana fa è stato pubblicato su YouTube, da Good Blood, un approfondimento molto importante in ambito Nintendo: si tratta di un documento rilevante perché è andato a scavare dentro dichiarazioni ripetute per decenni, trovando un'incontrovertibile chiave di lettura a delle parole che Miyamoto reitera dal 1986, a cui nessuno - finora - aveva dato il giusto peso.
Tutta l'incomprensione è scaturita dalle grandi differenze culturali che intercorrono tra Oriente e Occidente; in questo caso specifico, tra Giappone e Occidente. E forse anche dalla stranezza di Miyamoto, che nella sua carriera ha spesso dato risposte oracolari, da interpretare più che da leggere: ma tutte le volte che ha ripetuto le parole che andremo ad analizzare, lo ha fatto per un motivo ben preciso. Del resto, nessuno ribadisce un concetto per quarant'anni, non fosse davvero convinto del suo contenuto; è un peccato, di conseguenza, che non lo abbia mai elaborato a dovere, poco stimolato da ulteriori domande sull'argomento. Per certo, qualsiasi analisi futura su Miyamoto, e sulla sua filosofia di sviluppo, non potrà ignorare quanto appena emerso.
Il nostro consiglio è di guardare per intero il filmato originale, che riporta le singole fonti analizzate: noi qui sintetizzeremo i punti salienti per riflettere successivamente sulle ripercussioni di quanto affiorato. E un ultimo dettaglio, per comprendere al meglio la lettura: per i pochi di voi che non ne fossero a conoscenza, nel mondo occidentale si definisce "sandbox" un videogioco che sia focalizzato sulla creatività del giocatore, che permetta allo stesso di trovare la propria strada attraverso la sperimentazione, che esista o meno un obbiettivo finale da raggiungere.
Sandbox
In un'intervista del 1986, subito dopo la pubblicazione del primo The Legend of Zelda per NES/Famicom, Miyamoto ci dice che con quel gioco ha provato a creare un "giardino in miniatura". Nel 1998, in seguito all'uscita di The Legend of Zelda: Ocarina of Time, ribadisce che "con Zelda, ho sempre tentato di ricreare un giardino in miniatura". Lo ripete nel 1999, e nel 2002. E nel 2006. Dopo Breath of the Wild, ci spiega che la società è tornata agli albori, quando l'idea era quella di "creare un giardino in miniatura".
Nel 2017, parlando proprio del recente capolavoro diretto da Hidemaro Fujibayashi e prodotto da Eiji Aonuma, eredi depositari di questo concetto di "giardino in miniatura" (lo stiamo ripetendo volontariamente, sì), Miyamoto spiega che con Breath of the Wild l'intento principale è quello di ridare libertà al giocatore, perché negli ultimi The Legend of Zelda avevano preso il sopravvento gli eventi prestabiliti dagli sviluppatori. In effetti, l'equilibrio tra "libertà del giocatore" ed "eventi preparati dagli sviluppatori" ha caratterizzato l'intera evoluzione della saga, in una tensione creativa sempre viva, che non ha trovato, ad oggi, una soluzione univoca. Ma quel che dice Miyamoto è sicuramente vero: nonostante nel 2011 (alla pubblicazione di Skyward Sword) abbia ripetuto che l'intento era quello di tornare al passato, ai "giardini in miniatura", con uno stesso luogo da visitare e rivisitare, quell'episodio è il The Legend of Zelda più lineare mai creato.
Un altro concetto chiave che Miyamoto ricorda dal 1989, è quello di realizzare videogiochi come giocattoli. Senza alcuna polemica riguardo l'arcinota - e ormai noiosa - discussione sull'assenza di trama. Quello che Miyamoto intende, è che i videogiochi debbano essere strumenti nelle mani dell'utente: quest'ultimo dovrebbe avere un ruolo attivo e creativo nel loro utilizzo. In termini letterari, dovrebbe essere al contempo narratario e narratore. Nel 2002 lo ribadisce: sia in Mario che in Zelda, "si gioca con l'ambiente".
Nel 2017 lo dichiara in modo limpido, in un'intervista a IGN. "Voi qui dite sandbox, ma prima che chiunque li chiamasse così, io ho sempre definito i giochi di The Legend of Zelda dei "giardini in miniatura", dei posti in cui il giocatore è libero di esprimere la propria creatività".
Ogni volta che, dal 1986, Miyamoto ha pronunciato la sua parola magica, tradotta in inglese "miniature garden" e in italiano "giardini in miniatura", ha sempre inteso un altro concetto, un concetto per larga parte sovrapponibile a quello di "sandbox". Quella parola magica, in originale, quindi in giapponese, è "hakoniwa". "Hako" per scatola, "Niwa" per giardino.
Hakoniwa
Nonostante il termine "hakoniwa" come sostitutivo di sandbox sia (da quanto ci è noto) un neologismo Miyamotiano, le affinità concettuali tra le due parole hanno trovato il modo di abbracciarsi oltre l'influenza del maestro nipponico.
In Giappone infatti esiste la "hakoniwa therapy", in Occidente la "sandplay therapy", delle attività in cui il paziente, adulto o bambino che sia, è incentivato a disporre degli elementi all'interno di uno spazio, così da analizzarne successivamente la posizione e le distanze in ottica simbolica e introspettiva. In entrambi i casi, il paziente è chiamato a definire uno spazio seguendo il proprio intuito, sfruttando degli strumenti preselezionati.
Il concetto di hakoniwa esiste da secoli, in Giappone ve ne sono tracce risalenti al XVII secolo. È l'arte di miniaturizzare i paesaggi, di portare un po' di Zen all'interno di uno spazio ristretto. Sono giardini che poco hanno in comune con quelli occidentali: in essi è estremamente importante il concetto di vuoto, di rispetto degli spazi. Se ci pensate, il primo The Legend of Zelda era esattamente così: c'erano tanti elementi con cui interagire, ma la maggior parte dei quadranti erano colmi di vuoto. Negli hakoniwa una piccola pozza può rappresentare un lago intero: l'immaginazione dello spettatore è fondamentale.
Un altro concetto alla base degli hakoniwa è la stilizzazione della natura: sono creazioni che devono afferire a ciò che rappresentano senza imitazione diretta. In questo senso, la costante ricerca stilistica di The Legend of Zelda è perfettamente in linea col desiderio di realizzare un giardino in miniatura interattivo.
Breath of the Wild, hakoniwa al suo apice
È difficile non individuare in The Legend of Zelda: Breath of the Wild la sublimazione assoluta di quest'idea decennalmente perseguita da Shigeru Miyamoto.
Dopo aver realizzato quello che da molti è considerato il miglior gioco del secolo scorso, Ocarina of Time, Miyamoto per mesi ha rilasciato interviste ambigue, come se, nonostante tutto, si trattasse di un progetto incompiuto: Zelda 64, nella sua mente, sarebbe dovuto essere molto altro. Avrebbe dovuto donare la possibilità di alterare il paesaggio, tagliando alberi; l'ambiente avrebbe dovuto ricordare le modifiche apportate dal giocatore. Tutti elementi che abbiamo ritrovato, vent'anni dopo, proprio in Breath of the Wild: un gioco in cui Link può andare dove vuole, può interagire in centinaia di combinazioni diverse con l'ambientazione, duettando in maniera organica col superbo motore fisico, chimico e metereologico del gioco.
Non solo: Breath of the Wild propone una sintesi grafica eccelsa, che rischia di compromettere qualsiasi futura sperimentazione in una prospettiva di conservatorismo poco adatta alla saga. Ma è davvero difficile immaginare un incontro migliore tra realismo, comunque richiesto dalle ambizioni della serie, e stilizzazione grafica. Tecnicamente superiore, sì; stilisticamente più adatto? Sarà complicato.
Anche nell'ottica di fedeltà all'identitario rapporto tra contenuto e assenza dello stesso, Breath of the Wild è un hakoniwa perfetto. È pieno di lande e distese di flora e fauna, che intervallano punti di interesse numerosi, ma mai prevaricanti rispetto al paesaggio stesso. In questo, è molto diverso dal successore, Tears of the Kingdom, che coinvolge continuamente il giocatore in attività ludiche e strutture (volendo) da costruire. Che non è necessariamente peggio, ma sicuramente è meno fedele a quel misticismo Zen ricercato dai giardini in miniatura nipponici.
Libertà creativa e strutturale
In molti hanno associato questo concetto di hakoniwa a quello di open world, al giocatore libero di scegliere le propria strada all'interno di un'avventura.
In parte è sicuramente vero, questo fattore esiste: l'associazione non è sciocca. Ma non bisogna scordare che, nonostante Miyamoto abbia associato principalmente la sua idea di hakoniwa a The Legend of Zelda, immaginiamo anche per l'ambientazione in sé e per sé, il maestro nipponico non ha mai escluso dal discorso nemmeno Super Mario. Tornano alla mente le parole di Takashi Tezuka, che tanti anni fa raccontò di come Zelda e Mario fossero sostanzialmente molto simili, col primo maggiormente incentrato sull'evoluzione dei poteri e sull'uso degli strumenti, e il secondo sul movimento del personaggio. Un'associazione che potrebbe sembrare assurda, ma che non lo è in ottica sandbox.
Pensate ad esempio a Super Mario 64. Più volte abbiamo scritto che, in termini di libertà di movimento, è il vero predecessore di Breath of the Wild, più di Ocarina of Time: nel gioco del 1996 era possibile, una volta padroneggiato il sistema di controllo, andare dove si voleva, come si voleva. Super Mario Galaxy, dieci anni dopo, pur essendo eccelso in altri ambiti, aveva largamente ridotto le possibilità dell'utente di utilizzare Super Mario come "uno strumento": date Super Mario 64 a dieci persone diverse e vedrete dieci avventure differenti, dategli Super Mario Galaxy e vedrete praticamente lo stesso gioco, interpretato semplicemente con maggiore o minore abilità.
Il punto a cui volevamo arrivare, è che il concetto di hakoniwa professato da Miyamoto si applica maggiormente alla creatività del giocatore che non alla macrostruttura di un'opera. Fa sicuramente parte dell'ideologia poter scegliere il proprio sentiero all'interno di un'avventura, ma è molto più importante poterlo percorrere a proprio piacimento.
Proponiamo degli esempi pratici per chiarire: per passare dal punto A al punto B esiste un solo tragitto, composto da una singola stanza in cui c'è un enigma a soluzione unica. Qui, di hakoniwa non c'è alcunché. Stavolta, per passare dal punto A al punto B esistono dieci stanze diverse, ognuna delle quali conduce allo stesso fine, e ognuna contiene un enigma a soluzione unica. In questo caso, siamo già nel territorio dei giardini in miniatura, ma solo tangenzialmente. In un'altra situazione, tra il punto A e il punto B c'è di nuovo una sola stanza, che contiene un enigma, ma stavolta l'enigma è risolvibile in molti modi diversi, in base alle intuizioni del giocatore. Ecco, qui siamo già in pieno hakoniwa. La cui sublimazione avviene mischiando i due concetti, ovvero frapponendo tra A e B dieci stanze diverse, ognuna delle quali contenente enigmi a soluzione multipla.
Tra hakoniwa e parco giochi
Vista l'importanza dell'argomento, abbiamo trattato solo in parte il dilemma principale dell'hakoniwa, quello che ha portato, soprattutto tra il 2006 e il 2016, The Legend of Zelda lontano da questo concetto: ovvero la tensione tra libertà creativa del giocatore ed eventi preparati dagli sviluppatori. Una tensione che, forse, non avrà mai soluzione. Lo stesso Miyamoto sembra combattuto tra queste due anime, descrivendo a volte Mario e Zelda come dei parchi tematici in cui non vede l'ora che gli utenti possano entrare, così da divertirsi con le attrazioni.
Quelle di hakoniwa e di parco giochi sono ideologie praticamente opposte. In un caso, dato un certo contesto e determinati strumenti, il personaggio è libero di avanzare seguendo il proprio istinto, e le proprie idee. Nel secondo allaccia le cinture e segue il sentiero, pur brillante che sia, tracciato per lui dagli sviluppatori. Il recente The Legend of Zelda: Echoes of Wisdom ha cercato un compromesso virtuoso tra queste due anime, lasciando grande libertà creativa alla protagonista, ma dividendo la progressione in due scaglioni principali. Chissà come affronterà l'argomento il prossimo capitolo: finora, i massimi esponenti (come direzione di game design) di hakoniwa e parco giochi sono stati due capitoli consecutivi, ovvero Breath of the Wild (2017) e Skyward Sword (2011). Prima e dopo di loro, tante ibridazioni dei due concetti.
Alla fine di questo lungo articolo, ci teniamo a ribadire che il decennale anelito di Miyamoto non è associabile alla libertà di scegliere il proprio percorso all'interno di un'avventura. È parte dell'idea di hakoniwa, ma non certo il suo fulcro. Pensate più che altro ai cespugli che bruciavano, se infiammati, nel primo The Legend of Zelda. A Super Mario che, nel 1985, poteva saltare sopra la fila più alta di mattoni, così da raggiungere un passaggio segreto. Ai cartelli tagliabili di Ocarina of Time, e ai loro pezzi di legno che, scagliati su un laghetto, continuavano a galleggiare seguendo la corrente. A tutto Breath of the Wild.
Miyamoto ha provato a realizzare videogiochi come strumenti per il videogiocatore da quarant'anni, e da quarant'anni prova a comunicarcelo. A parole, non c'era mai riuscito del tutto. Ma le sue opere, in fondo, ce l'avevano già detto.