Conobbi The Legend of Zelda nel 1992, andavo per i tredici anni e sulle riviste di settore non si parlava che di A Link to The Past in uscita su Super Nintendo. A conquistarmi però non furono le descrizioni entusiaste degli addetti ai lavori, bensì la grafica: ancora oggi a distanza di tutto questo tempo, l'art design della terza avventura di Link mi seduce a prima vista, inoltre nel 1992 era a suo modo "next gen".
Venne poi il giorno del pellegrinaggio verso il mio negozio di videogiochi preferito di allora, Pergioco in Via degli Scipioni, dal quale tornai proprio con la cartuccia di quello che poche ore dopo si sarebbe trasformato in una delle più grandi avventure della mia carriera videoludica. Acquistare A Link to The Past mi fece sentire grande: quello era a tutti gli effetti un gioco per grandi e io lo stavo diventando proprio grazie ad esso.
Già amavo la complessità, certe avventure grafiche lo erano eccome, inoltre avevo da tempo iniziato a consumare gestionali e simulatori, ma è tra il 1991 e il 1992 che nel menù entrarono ufficialmente anche i giochi di ruolo. Mi ero divertito a non capire Dungeon Master o ad arrovellarmi le meningi insieme agli amici davanti a Curse of Azure Bond, ma è con il tris composto da Eye of The Beholder, Ultima VII e The Legend of Zelda: A Link to the Past che scoppia quello che possiamo tranquillamente definire amore.
Estate 1992
Tolto il primo gioco in fondo non così importante, Ultima VII e A Link to the Past riscrissero in pochi mesi le regole dei GDR. Divennero entrambi oggetti irresistibili, ma il primo a cui diedi una chance fu il capolavoro Nintendo. Ricordo quasi tutto di quel giorno, perché i giorni preziosi si fissano nella mente, ma se dovessi scegliere una fotografia andrei con quella che m'immortala sui sedili posteriori della macchina, mentre leggo febbrilmente il manuale d'istruzioni già pregustando chissà quali avventure. Lo ammetto, per almeno sei mesi non andai molto avanti: era davvero difficile, in inglese e col dizionario in mano non così divertente, e continuavo a perdermi lungo la mappa. Poi ci fu il proverbiale click, e tutto cambiò. E cambiò per sempre. Iniziai a leggere il gioco con altri occhi, riuscivo ad andare più in profondità, a comprendere le sottigliezze strategiche necessarie e, cosa ancora più importante, a sbloccare nuovi strumenti che pian piano mi fecero avanzare ben oltre le mura invisibili dei miei primi superficiali tentativi.
La direzione sbagliata
Innegabilmente Link's Awakening fu un gioco fenomenale, i limiti del Game Boy ne limitarono però il peso. Per vedere qualcosa di paragonabile a A Link to the Past dovemmo attendere sette anni: quelli che ci separarono da Ocarina of Time che, ancora una volta, stravolse tutto. In fondo, i due Zelda per Nintendo 64 hanno fatto la stessa cosa che oggi vediamo fare ai due Zelda per Switch: riscrivere le regole, soprattutto di come andrebbe gestito un mondo aperto, per intenderci il classico open world che all'epoca, almeno nella forma che intendiamo oggi, stava ancora muovendo i suoi primissimi passi (se vi state chiedendo dove fosse Rockstar Games che all'epoca si chiamava DMA Design, c'è un altro open world per N64 ad aspettarvi alla fine della domanda: Body Harvest). In questo articolo non discuteremo dei motivi per i quali Ocarina of Time fu un titolo seminale, è la stessa storia ad avercelo dimostrato e dire il contrario sarebbe un inutile esercizio da negazionisti. La parte importante, quella che ci interessa di più oggi, è che dopo Ocarina of Time e Majora's Mask la serie iniziò un percorso tanto adulato dai fan quanto dannoso per il franchise. Wind Waker fu strabiliante per diversi motivi, ma sotto quell'irresistibile grafica in cell shading mancava all'appello qualcosa di fondamentale.
Potere al gameplay
È sempre su Game Boy che si rifugiarono gli Zelda migliori, quelli più legati alla tradizione, mentre sulle console casalinghe la serie abbandonava nemmeno tanto lentamente le colonne portanti del suo gameplay, in favore di un approccio più grafico, più narrativo, più spettacolare. "Proprio come una fiaba interattiva!", avrebbero urlato sulle copertine del tempo. Twilight Princess e Skyward Sword sono giochi realizzati con la solita maestria, ma non erano più degli Zelda. C'era Link, la principessa da salvare, tutto il cast al rapporto, ma l'avventura era molto più guidata, le rupie divenivano ben presto inutili e i combattimenti così facili non aiutavano certo a tenere alta l'attenzione, o a massimizzare i cuori a disposizione. Qualcuno griderà all'eresia, ma i dati sono incontrovertibili: provando a fare il più classico dei Tripla A, Eiji Aonuma stava condannando la serie all'irrilevanza. Invece di abbracciare la decrescita felice che cambiò per sempre il modo di ideare console da parte di Nintendo, Zelda cercava ancora di ricordare agli appassionati che GameCube e Wii potevano essere forti e "cool" come PlayStation e Xbox. Sbagliando di grosso.
Ritorno alle origini
Con Zelda: Breath of The Wild, Nintendo non ha fatto altro che riportare le lancette al 1987, quando il primo The Legend of Zelda irruppe nei negozi con il suo carico rivoluzionario di libertà. I due giochi sono naturalmente molto diversi, ma la filosofia dietro il loro gameplay è a tutti gli effetti la stessa, oltre che a basarsi sulle medesime emozioni. Tutti saprete che il primo gioco su NES nasce dalla volontà di Miyamoto di ricreare quel senso di avventura che provava giovanissimo esplorando la campagna circostante, e cos'è Breath of the Wild se non la quintessenza di quel fondamentale incipit creativo? Ripristinando la visione originale, Nintendo ha finalmente capito in che direzione muoversi e il pubblico ha risposto in massa, trasformando il primo capitolo su Switch nello Zelda più venduto di sempre, e non di poco ma di oltre cinque volte rispetto ai quattro milioni a cui si è fermato Skyward Sword.
Non basta naturalmente dire "voglio quel senso di meraviglia" per ritrovarselo magicamente dentro al gioco, devi anche saperlo comunicare al team e realizzarlo, artisticamente e tecnicamente. Se con Breath of Wild il director Eiji Aonuma ha tracciato una strada completamente nuova, con Tears of the Kingdom ha messo sul piatto tutti i suoi quasi cinquant'anni d'esperienza in campo videoludico, dirigendo un team come una vera orchestra. Il risultato non è nemmeno un gioco seminale, bensì due. E se Tears of The Kingdom è così superiore a Breath of The Wild è per gli stessi motivi per cui Vice City e San Andreas sono di un'altra categoria rispetto a GTA III, con il quale hanno in comune praticamente tutto. Il primo gioco serve per tracciare la rotta, e poi si parte con l'iterazione costruendo su delle fondamenta solide.
Nintendo non ha passato gli ultimi sette anni con le mani in mano ed è proprio grazie al fatto che non è dovuta ripartire daccapo che oggi Tears of The Kingdom può offrire così tanti contenuti e di così grande qualità, poggiati su una struttura ludicamente perfetta.
Puro videogioco
Se non vi fidate di noi, fatevelo dire dagli sviluppatori che si stanno sperticando in lodi sui social network. Il risultato è fenomenale non solo perché gira su un hardware mobile di sette anni fa, lo è anche estendendo la sfida ai giochi per le console maggiori. Ci spingiamo oltre: alcune soluzioni tecniche riportano ai giochi più avveniristici per PC, a quel Far Cry 2 simulatore infernale che venne poi domato da Ubisoft, come anche alla nuova ondata indie. In Tears of the Kingdom vento e fuoco, elettricità e acqua, gravità e portanza lavorano contemporaneamente e in ogni momento, influiscono sulla direzione in cui ci inerpicheremo, in quella verso cui ci lanceremo successivamente nel vuoto. Ogni passo, ogni scalata, è gameplay, un po' come accade anche in Death Stranding, che Tears of the Kingdom sembra citare in almeno un paio di circostanze. Piove e allora circumnavigo la collina, ma se non piove avrò abbastanza stamina per arrivare in cima? Ho delle pozioni che potrebbero aiutarmi? Salgo di qua, e poi mi butto sul versante sinistro... anzi mi getto ora visto che il vento è cambiato ed è improvvisamente a mio favore. Pure se piccole, queste sono tutte decisioni che avvengono in tempo reale dentro la nostra testa, in base al nostro equipaggiamento. Questo è puro videogioco.
Detto, fatto!
Introdotto in Breath of the Wild, questo sistema diventa ancora più complesso e soddisfacente in Tears of the Kingdom. In questo ultimo gioco possiamo mettere alla prova la fisica anche con le nostre costruzioni, assemblate in men che non si dica con un interfaccia che sa essere contemporaneamente invisibile, intuitiva e sorprendentemente versatile e potente. Ogni costruzione è immediatamente soggetta alle leggi fisiche di Hyrule, e i pezzi utilizzabili insieme non sono nemmeno pochi. Riuscite a capire quanto oltre è andato Tears of the Kingdom rispetto a tutto il resto? E questo insieme di fattori non è una cosa di poco conto, o secondaria, ma è parte integrante del gameplay, della soluzione di molti degli enigmi, di un gioco dove causa ed effetto sono talmente evoluti che sperimentare può portare alle conseguenze più disparate, e mai scriptate. Inoltre tutto questo in un open world dei più grandi mai realizzati.
Brutto a chi?
La grafica però non è all'altezza degli standard odierni, diranno alcuni. È vero questo, come è vero che nessuno sano di mente rifiuterebbe una versione di Tears of the Kingdom con texture in 4K e 60fps senza sbavature e pigne ultrarealistiche. Dovete però capire che è proprio quel tipo di standard grafico a impedire la nascita di giochi come quest'ultimo Zelda; è proprio quel tipo di produzione a strozzare il coraggio e la conseguente innovazione che invece ritroviamo in Tears of the Kingdom. State inseguendo la linea temporale che vede Twilight Princess un successo da dieci milioni di copie in tre giorni, una linea temporale diversa da quella che tutti chiamiamo realtà dove quel risultato se lo è portato a casa, al contrario, lo Zelda tutto gameplay di cui oggi stiamo tessendo le meritate lodi. Uno Zelda che non si accontenta e migliora il magistrale level design del gioco precedente in modo considerevole, triplicando la mappa e le sfide, inserendo sotterranei che si estendono fino al cielo, permettendoci di volare e precipitare a testa in giù fino alle viscere della terra. Senza caricamenti.
Avanti, rompimi!
Un level design che in Tears of the Kingdom è costruito sfidando costantemente il giocatore, al quale però vengono forniti strumenti che solitamente troveremmo in un menù debug, tanto sono potenti. Per esempio, la possibilità di risalire attraverso le strutture data dal potere Ascendere è qualcosa che romperebbe qualsiasi videogioco, mentre qui ti viene concessa con pochissimi limiti. Infatti a volte quasi non ci pensi di avere un potere così importante, non sei abituato a sovvertire in modo così brutale le regole auree del videogioco moderno. In questo nuovo Zelda sei invece spronato a farlo, ma è una libertà che possiamo estendere ad ogni aspetto del gioco: la stessa Hyrule è pensata per essere visitata in qualsiasi ordine, pur rimanendo in grado di prevedere le nostre mosse e offrirci sempre una soluzione alla nostra impreparazione. Questo però non rende le cose più facili: conoscere una possibile soluzione in un gioco come questo è il meno, bisogna anche raggiungerla e comprenderla. Solitamente questo comporta un viaggio nell'ignoto, che a differenza degli altri giochi non presenta segnalini sulla mappa da inseguire. Anche Zelda ha i suoi indicatori, ma solo quando un personaggio ci indicherà un punto preciso, inoltre mostrano sempre il punto di partenza di una quest e mai quello di arrivo. Differenza sottile, ma sostanziale.
Per sempre
Tra i tanti aspetti che rendono Zelda Tears of The Kingdom uno dei più grandi giochi mai realizzati, se non addirittura il più grande, è il perfetto incastro che ha reso ogni ingrediente presente su Hyrule utile in una miriade di modi diversi. Una zanna di un nemico può essere usata per potenziare una freccia, per costruire una lancia, per creare pozioni e forse anche per migliorare un vestito, inoltre può essere venduta per fare cassa, almeno quando non vi servirà per chiudere chissà quale missione. E questa grande varietà di utilizzi crea diversi modi di fare: ci sono giocatori che non partono senza il giusto mix di pozioni, chi preferisce tenersi cinquanta occhi di pipistrello perché in quanto a mira è un po' a scarso, chi invece è sempre a caccia di zucche perché preferisce investire in stamina e un aiuto protettivo non fa mai male. Ognuno ha la sua strategia, i suoi tic, le sue fisse. Ognuno prende possesso di Link a modo suo, trasformandolo nuovamente in quel tramite tra realtà e videogioco da cui poi nasce anche il suo nome. E i più piccoli diventano più grandi, alle prese con un gioco che non è affatto facile da capire e dominare, e i più grandi diventano di nuovo piccoli. Come me nel 1992, alle prese con A Link to The Past, ancora libero dai ricordi di quei pomeriggi infiniti con gli amici, ad esplorare ruderi, fognature, uffici in costruzione, ai bordi di una città che tipicamente famelica divorava la sua campagna.
Un po' Goonies, un po' Link, tutti scemi ma per sempre. Come lo sarà Tears of the Kingdom.