C'è una scuola di pensiero che immagina gli individui come dei liberi pensatori di fronte agli scaffali dei supermercati. Ogni acquisto ha motivazioni strettamente personali e razionali e i gusti non sono discutibili, perché sono il fondamento della libertà di consumo. Quindi, ciò che mettiamo nei nostri carrelli è esattamente ciò che vogliamo prendere.
È innegabile che nessuno obblighi a comprare alcunché, ma ridurre l'ossatura di un sistema economico e sociale alla sola volontà dei singoli esseri che ne fanno parte è una banalizzazione eccessiva in cui sarebbe meglio non cadere.
Senza andare troppo in là, perché non è questo il contesto per farlo, diciamo che un singolo acquisto può essere la risultante di forze molteplici, che indirizzano inconsciamente verso determinate scelte. Il consumatore non lo sa, ma chi deve vendere sì e, in base alla sua forza economica, spenderà grandi risorse per assicurarsi le migliori menti che garantiscano il successo del suo prodotto.
Certo, non parliamo di una scienza esatta, visto che esistono molti fattori esterni da considerare, ma in generale quando mettiamo una mano sullo scaffale per prendere qualcosa, è probabile che abbiamo già subito gli effetti di qualche spinta inconscia, che ci ha fatto scegliere un prodotto piuttosto che un altro.
Il successo è evidente
Nei videogiochi vale esattamente lo stesso principio. Quando furono introdotte, le microtransazioni vennero viste e apostrofate in modo molto negativo. In tanti si scagliarono contro il cosiddetto pay-to-win, ossia l'acquisto di oggetti che danno vantaggi in gioco, considerandolo il male assoluto. In realtà era un modo a suo modo onestissimo e per niente rapace di concepire il sistema, perché partiva da un presupposto esplicito: tutti giocano gratis, ma chi paga ha dei vantaggi.
Con il tempo le tecniche di vendita degli oggetti in gioco sono state rifinite andando da una parte incontro alle lamentele e dall'altra aggirandole cambiando completamente approccio.
I nuovi giocatori hanno introiettato il sistema senza battere ciglio, mentre i vecchi hanno opposto più resistenza, ma piano piano si sono adeguati, tanto che attualmente il mercato dei videogiochi è fatto prevalentemente da microtransazioni, come ci racconta un recente studio secondo il quale l'82% dei videogiocatori americani hanno acquistato oggetti nei giochi che li vendono. Inoltre, la tanto derisa Ubisoft per il suo sforzo verso i live service ha pubblicato dei risultati finanziari ottimi, relativi al trimestre fiscale appena trascorso, fondati soprattutto sui suoi live service e sulla vendita di titoli di catalogo. Non c'è nemmeno da citare il fatto che praticamente tutti i grandi editori vivono ormai più di season pass venduti, vendita e scambio di oggetti, che di giochi fatti e finiti. Quando un gioco attecchisce fra il pubblico, ecco che scatta il solito florilegio di offerte, legate spesso a nuovi contenuti, che mirano a prolungarne la vita il più possibile, trasformandolo in una piattaforma / negozio su cui investire ingenti risorse nel tempo.
I fattori in gioco sono tanti (accesso spesso gratuito, spinta sociale, investimenti marketing cospicui, oscurazione delle alternative, influencer a caccia dell'ultimo fenomeno e così via) con una sola presenza che appare sempre più ridotta, ossia proprio la volontà del consumatore, che possiamo considerare una specie di mito, lì dove lo stesso è semplicemente vittima di pulsioni che vengono sfruttate senza grossi drammi etici dagli editori, ormai consapevoli che il sistema si è affermato e che non ci sono più resistenze da abbattere per farci soldi. Ogni tanto qualche polemica qua e là scoppia, ma è una polemica sterile che lascia il tempo che trova, non certo una discussione strutturata che possa mettere in crisi alcunché.