Quando si vivono annate come quelle da cui siamo reduci, diventa estremamente difficile leggere in maniera obiettiva il mercato dei videogiochi. Se Elden Ring ha proiettato FromSoftware nell'Olimpo degli sviluppatori AAA capaci di piazzare decine di milioni di copie, The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom si è invece presentato come uno fra i migliori videogiochi mai realizzati, poco prima che l'ancora fresco Baldur's Gate 3 alzasse oltre ogni più rosea previsione l'asticella creativa dei giochi di ruolo. Xbox Game Pass, nel frattempo, ha da poco accolto l'epopea spaziale di Starfield, la favola soulslike di Lies of P e il tuffo nel passato di Sea of Stars, mentre il mese di ottobre si appresta ad alzare il sipario su potenziali blockbuster come Super Mario Wonder e Marvel's Spider-Man 2.
Insomma, i videogiocatori sono in festa, per certi versi si tratta di un'epoca d'oro, sfogliando le pagine della storia è raro imbattersi in momenti altrettanto carichi di pubblicazioni d'alto calibro. Ma questa luce abbagliante proietta un'ombra cupa sul fondale del medium: per ogni produzione che riesce a raggiungere risultati alieni alla sua tradizione esiste uno studio che manca il bersaglio e si trova immediatamente sull'orlo del fallimento, come in una sorta di folle roulette russa finanziaria. Chi non riesce a portarsi a casa il banco si trova a dover far fronte ai buchi generati dagli anni di sviluppo sprecati: nei casi 'migliori' tenta di farcela ristrutturando l'impresa, in quelli peggiori va incontro alla chiusura definitiva degli uffici. La filiera dei videogiochi, storicamente definita "l'unica industria a prova di recessione", sta mostrando il fianco alle evidenti avvisaglie di una crisi silenziosa.
Nel corso del 2023 sono stati "uccisi" un totale di 54 titoli, alcuni ritirati definitivamente dagli store digitali e altri andati incontro alla prematura chiusura dei server. Diversi studi di sviluppo hanno chiuso i battenti, ancor di più sono state le compagnie costrette ad andare incontro a invasivi rimaneggiamenti interni volti ad abbattere il numero di dipendenti. Tanti progetti sono stati ridimensionati, altri sono stati congelati a tempo indeterminato, altri ancora sono stati cancellati senza appello. In un settore ormai tanto capillare e sviluppato si potrebbe pensare a una classica flessione, ma a ben vedere non è così: il 2023 è stato uno degli anni peggiori per quanto riguarda lo stato di salute degli sviluppatori di videogiochi.
Tra le parole di Rami Ismail, che non ha mai cessato di mettere in guardia i protagonisti e il pubblico riguardo lo stato del mercato, e le antiche predizioni di Shawn Layden, che da secoli si scaglia contro l'insostenibilità del modello AAA, si è infine configurata una situazione a dir poco traballante. La lievitazione dei tempi e dei costi di sviluppo, la nuova dimensione del medium, così come la risonanza mediatica generata dai successi quanto dagli inciampi, hanno gettato le basi per un mercato spaccato esattamente a metà: o si vendono decine di milioni di copie, oppure si rischia di finire sul lastrico nel giro di una settimana. Cosa sta succedendo all'industria dei videogiochi e perché sta succedendo?
Il 2023 nero in pillole e notizie
Bisogna partire da una premessa obbligatoria: nel corso del 2023 sono successe talmente tante cose che riassumerle tutte quante non sarebbe possibile, pertanto ci limiteremo a parlare solo delle più discusse. L'anno si è avviato con la grande botta di Google: la chiusura definitiva della piattaforma di game-streaming Stadia è giunta a compimento proprio il 18 gennaio, lasciando dozzine di studi scoperti e portando al licenziamento di circa 150 dipendenti. Nel frattempo, Babylon's Fall di PlatinumGames ha dovuto calare il sipario sul suo mondo persistente, dopo aver toccato l'allarmante picco assoluto di 1.000 utenti connessi contemporaneamente: sarebbe stato solamente il primo fra decine di giochi come servizi destinati a chiudere i battenti durante i mesi successivi. Poche settimane più tardi Square Enix, publisher del progetto, ha dovuto fare i patti con un'ulteriore sconfitta sul fronte di Forspoken, i cui numeri deludenti hanno portato allo smembramento di Luminous Productions: i superstiti del team sono stati successivamente integrati nella Creative Business Unit II della compagnia.
Sono stati 54 in totale i videogiochi chiusi o ritirati dal mercato digitale nel corso dell'anno, e Kotaku li ha raccolti in una lista in costante aggiornamento: nella maggior parte dei casi si tratta di games as services dalla vita estremamente breve, come per esempio Knockout City di EA, Crossfire X di Smilegate o Vampire Masquerade: Bloodhunt di Sharkmob, ma al loro fianco figura anche qualche progetto differente, fra cui l'esclusiva PlayStation Dreams - a cui è stato interrotto il supporto - il Pac-Man 99 di Nintendo Switch Online, che è andato a fare compagnia a Super Mario Bros 35, ma soprattutto Hyenas di Creative Assembly, che è stato cancellato in fretta e furia pur essendo il progetto di SEGA con il budget più alto di sempre.
Che i giochi come servizi vadano e vengano non è certo una sorpresa, ma la stessa cosa non si può dire degli studi di sviluppo consolidati: un caso emblematico è quello di Volition, che sotto la nuova dirigenza di Embracer Group non è riuscito a sfuggire alla moderna e spietata regola del "un colpo, un morto". Dopo aver pubblicato solamente un videogioco, ovvero il soft reboot di Saints Row che ha visto luce nel mese di agosto, lo studio è stato chiuso - dopo trent'anni di onorato servizio - a seguito di quell'unico ed eclatante fallimento. L'annuncio, fra le altre cose, è arrivato assieme a quello di una profonda ristrutturazione interna di Embracer Group: la casa ha dichiarato che l'operazione porterà inevitabilmente alla chiusura di altri studi, al licenziamento di altri dipendenti e alla cancellazione di titoli in sviluppo, anche se non è ancora dato sapere di quali si tratti oltre Gearbox Publishing, sul quale la mannaia è calata proprio nel mese di agosto.
Restando nello sgradevole ambito dei licenziamenti, lo scorso 28 settembre Epic Games ha lasciato a casa il 16% della sua forza lavoro: a essere colpite sono state 850 persone in totale, alcune delle quali non sono state avvertite neppure a cose ormai fatte del provvedimento della compagnia. Electronic Arts, nel frattempo, aveva sospeso i lavori sulle versioni mobile dei suoi sparatutto più famosi, impattando direttamente su Lightspeed e Industrial Toys: si stima che in totale la casa abbia tagliato oltre 1.000 impiegati nel corso del 2023, fra tester e membri consolidati di studi quali Bioware e Respawn Entertainment. Pur trattandosi di cifre impressionanti, sono numeri che impallidiscono rispetto a quanto accaduto sulle sponde di Meta: sono infatti 10.000 i licenziamenti ad aver toccato la società di Mark Zuckerberg, e tra questi figurano anche sviluppatori di Ready at Dawn e Downpour Interactive. Anche Unity, poco prima di tentare d'imporre la tanto discussa "tassa sul videogioco" a chiunque facesse uso del suo motore grafico, aveva appena messo alla porta 600 dipendenti: si è trattato della terza e ultima ondata di tagli in una ristrutturazione avviata tempo addietro.
La maggior parte dei licenziamenti sono arrivati con un tempismo particolare, spesso in concomitanza con un singolo vistoso scivolone del management: tale trend era stato avviato da Microsoft con l'ormai storico taglio di 10.000 dipendenti che colpì profondamente il ramo gaming, impattando prevalentemente 343 Industries - reduce dal lancio non brillante di Halo Infinite - così come ZeniMax e dunque il parco studi di Bethesda, oltre ad altri sviluppatori non meglio specificati.
Da quel momento in avanti non è trascorsa nemmeno una singola settimana senza che emergesse la notizia di almeno un grande licenziamento: CD Projekt Red ha lasciato a casa il 9% del suo staff, ovvero oltre 100 persone; Striking Distance Studio, dopo il mezzo flop di The Callisto Protocol, ha sacrificato il 30% della forza lavoro; SEGA, poco dopo aver comprato Rovio per oltre 700 milioni di dollari, ha chiesto a Relic Entertainment di licenziare 121 persone impegnate nello sviluppo di Company of Heroes 3. La lista è davvero interminabile e variopinta: al suo interno figurano Ubisoft, Firaxis, Deck Nine, persino colossi inscalfibili i cui ricavi non hanno mai accennato a diminuire, come per esempio Riot Games e Take Two Interactive.
Ci sono poi alcuni casi che hanno fatto più notizia, come per esempio quello di Daedalic Entertainment: dopo aver acquisito con fatica la licenza della Terra di Mezzo e tentato il grande balzo con The Lord of the Rings: Gollum, il disastroso esito dell'operazione ha convinto il management a chiudere la sezione dedicata allo sviluppo per concentrarsi esclusivamente sulla pubblicazione; di IP originali ne avevano prodotte parecchie, ma è bastato volare troppo vicino al sole una singola volta per incendiare le ali della società tedesca. Mimimi Games, dal canto suo, è stata al centro di una questione al limite del paradosso: dopo aver partorito quello che probabilmente è il suo miglior titolo in assoluto, ovvero Shadow Gambit: The Cursed Crew, ha annunciato attraverso un amaro messaggio che ridurrà lo staff e smetterà di produrre nuovi videogiochi; una decisione, questa, derivata dall'insostenibile mole di stress e gli astronomici costi di produzione che oggigiorno permeano la genesi di qualsiasi IP.
Vale la pena rimarcare ancora una volta che questo è un semplice spicchio del totale delle ristrutturazioni, delle chiusure e dei licenziamenti. A margine, nuove produzioni sembrano aggiungersi al territorio del "development hell" con una frequenza crescente: non si può non menzionare in tal senso Ubisoft, che è reduce da un'annata caratterizzata da $500 milioni di perdite e che fra Skulls & Bones, il remake di Prince of Persia: Sands of Time e Beyond: Good & Evil 2, guida a testa bassa la colonna dei desaparecido. L'ultimo membro a entrare a far parte della famiglia è l'atteso remake di Star Wars: Knights of the Old Republic maturato sotto l'ala di Embracer Group, dal momento che, nell'arco di una singola giornata, tutti i riferimenti al progetto presenti su internet sono svaniti in una nube di fumo. Dalle parti di Kotaku si vocifera invece che persino il progetto online legato a The Last of Us Parte 2 si trovi attualmente in fase di stallo dopo esser stato ridimensionato, senza contare che anche la blasonata Naughty Dog sarebbe stata recentemente toccata da licenziamenti.
Cosa sta succedendo?
Nonostante gli esperti tendano ciascuno a puntare il dito in una direzione differente, è possibile che la situazione attuale sia proprio il frutto di una serie di concomitanze che si sono impilate l'una sull'altra. Molti analisti imputano infatti la crisi dell'industria alle conseguenze della pandemia globale: dopo aver generato proiezioni di crescita falsate dalle particolari circostanze del 2020, il settore avrebbe attratto un'immensa mole d'investimenti perlopiù irragionevoli. In effetti. solamente nel 2021, sono stati riversati oltre 71 miliardi di dollari nelle casse delle principali case produttrici, oltre a ulteriori 9 miliardi destinati unicamente alle startup, compagnie che all'epoca orbitavano prevalentemente attorno a concetti già superati quali NFT e blockchain. La conclusione dei periodi di lockdown su scala internazionale avrebbe rapidamente mutato le abitudini dei consumatori, facendo scoppiare in un battito di ciglia la bolla delle previsioni. Con gli studi rimasti fermi ai box per mesi e in certi casi anche per anni, tonnellate di finanziamenti estremamente difficili da ripagare, oltre che centinaia di assunzioni a tappeto figlie del boom, gli sviluppi più recenti avrebbero portato l'industria AAA sull'orlo del collasso.
A ben vedere, sono in realtà anni che alcuni "araldi dell'apocalisse" tentano in ogni modo di comunicare l'insostenibilità del moderno modello di business, specialmente nell'industria dei videogiochi AAA. Shawn Layden, storico ex capo degli studi di Sony Interactive Entertainment, sostiene dal 2020 che la strada della grande produzione di stampo hollywoodiano, quella da centinaia di milioni di dollari d'investimento per un ritorno lontano nel futuro e intrinsecamente aleatorio, non sia più percorribile come una volta. Layden suggeriva di accorciare e compattare i titoli AAA, mettendo in atto l'insegnamento delle seconde file del settore, ma nemmeno lui avrebbe potuto immaginare il netto dualismo che caratterizza lo scenario contemporaneo.
Di recente a fare eco alle sue parole è stato il presidente di Capcom Haruhiro Tsujimoto: secondo lui, i costi di sviluppo sarebbero ormai cresciuti al punto tale che l'unica soluzione risederebbe in un ulteriore incremento dei prezzi dei videogiochi, che sono già arrivati a toccare quota 80€ nell'area europea. Tsujimoto ha inoltre affermato che: "I costi dietro i videogiochi sono aumentati di 100 volte rispetto all'era del NES, mentre i prezzi sono rimasti molto simili". Un ulteriore incremento dei prezzi - per un totale prossimo ai 100€ - costituirebbe l'opzione più salutare per le aziende, tenendo ben presente che: "I giochi di qualità elevata continueranno a essere venduti" nonostante la recessione. Questa dichiarazione pesa come un macigno: durante la terribile crisi economica del 2008, alcuni fra i maggiori economisti del pianeta hanno inquadrato il settore dei videogiochi come un segmento "a prova di recessione", ed è la prima volta da oltre trent'anni che si parla apertamente della percezione di una crisi.
In ogni caso esiste chi ha scelto di muoversi in una direzione differente: Sony ha infatti intrapreso da tempo una virata nella direzione dei giochi come servizi, nuova pista che è intenzionata ad affiancare a quella della tradizione. Molti appassionati - ostili a tale modello di business - sperano che l'abbandono dell'ormai ex CEO di Sony Interactive Entertainment Jim Ryan coincida con un'improvvisa cessazione dell'inseguimento della formula "GaaS", ma si tratta di un'eventualità all'apparenza impossibile. A prescindere dalle opinioni discordanti che storicamente maturano attorno ai giochi come servizi, non si può non constatare come si tratti di un sentiero - a oggi - estremamente rischioso: se da una parte è sotto gli occhi di tutti che alcuni games as services, per esempio GTA Online, League of Legends, Fortnite o più semplicemente EA FC, si sono rivelati fra le più grandi miniere d'oro sul mercato, è al tempo stesso ormai assodato che tali progetti tendano a fallire con una media preoccupante, e anche i più ambiziosi - dal New World di Amazon fino al Diablo IV di Blizzard - sembrano faticare a generare ricavi nel lungo periodo.
Probabilmente sono molte le concause ad aver disegnato il quadro attuale. I tempi di sviluppo dei videogiochi AAA sono cresciuti a dismisura, basti pensare al fatto che serie blasonate come Grand Theft Auto e The Elder Scrolls non vedono un nuovo capitolo da oltre dieci anni; assieme ai tempi sono lievitati anche i costi dello sviluppo, al punto tale che dai documenti relativi all'acquisizione Microsoft Activision-Blizzard è emerso che 'il grande videogioco' medio richieda un investimento prossimo ai $250 milioni. Tempistiche lunghe e investimenti elevati costituiscono già di per sé la ricetta perfetta per il disastro: quando le cose vanno bene si tira a campare, a navigare nell'oro sono esclusivamente gli investitori e il management, mentre al primo passo falso l'intero castello di carte rischia di crollare, perché sono sempre meno le compagnie che possono permettersi il flop di un videogioco AAA. Proprio questa sarebbe una delle ragioni occulte dietro il processo di centralizzazione degli ultimi anni, dal momento che l'acquisizione è spesso vista come l'occasione per coprirsi finalmente le spalle.
Infine da una mail di Phil Spencer - trapelata nel corso del processo con la FTC - è emersa una cruda disamina del mercato concepita dal capo di Xbox: "Poche aziende possono permettersi di spendere i 200 milioni di dollari che Activision o Take 2 investono per mettere in commercio titoli come Call of Duty o Red Dead Redemption", affermava il patron del Game Pass, aggiungendo che: "Il tasso di rischio per nuove IP con tali livelli produttivi ha portato gli editori a evitare di produrne. Si è quindi visto un aumento dell'uso di grandi proprietà intellettuali di terze parti per cercare di ridurre i rischi (Star Wars con EA, Spiderman con Sony, Avatar con Ubisoft)". Spencer suggeriva inoltre che questo timore verso la novità avrebbe impedito alle grandi case di sviluppo di competere con la forte spinta innovativa - fra l'altro a basso costo - del mercato indipendente e dell'industria AA; nonostante ciò, neppure tali settori si sono dimostrati immuni alla flessione dell'ultimo anno.
Un grande anno per i videogiochi, un pessimo anno per l'industria
Il grande paradosso, in questo particolare affresco, sta nel fatto che la crisi sia tutt'ora offuscata dalle storie dei grandi vincitori dell'industria. C'è stato Baldur's Gate 3, che ha trainato Larian Studios dallo stato di piccolo sviluppatore di talento fino a vette che in pochi hanno avuto occasione di toccare, tutto per merito della straordinaria qualità delle loro produzioni. C'è stato Elden Ring, che ha coronato il percorso creativo di FromSoftware e Hidetaka Miyazaki, capaci di battere grazie alla loro filosofia una manciata di record che si credevano inscalfibili. C'è stato The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom, che ha cementato ulteriormente l'antico concetto della "qualità Nintendo", quella capacità di sfornare prodotti impeccabili che sembrano rendere la casa immune a qualsiasi crisi. Poi hanno preso piede diverse favole minori, come quella di Vampire Survivors, o la piccola avventura del Chained Echoes di Matthias Linda, o magari i traguardi inaspettati del Sea of Stars di Sabotage Studio, che hanno contribuito ad alimentare l'inevitabile marea di ottimismo.
Probabilmente si tratta di due facce della stessa medaglia: ai costi elevati, alle tempistiche lunghe, all'enorme tassa dello stress e alle scintillanti promesse del marketing, possono corrispondere due strade e due soltanto, ovvero quella del grande successo e quella dello spettacolare fallimento. Quando va bene si sfiorano cifre che vent'anni fa non si sarebbero neppure potute immaginare, i creativi vengono celebrati e i dirigenti incassano assegni milionari; quando invece capita di scivolare, il rischio di non riuscire a rialzarsi si fa più concreto che mai e a pagarne le spese sono quasi esclusivamente i dipendenti.
Forse l'analisi di Phil Spencer è quella che meglio mette a fuoco le particolari condizioni del mercato contemporaneo: un mondo nel quale anche uno studio di medie dimensioni può annichilire i risultati dei più grandi attori grazie alla spinta innovativa delle idee - come accaduto a FromSoftware o a Larian Studios - quando si svincola dalla ghigliottina finanziaria o sceglie di assumersi grandi rischi. Quello di correre dei rischi è tuttavia un lusso che pochissimi possono permettersi, a farlo è quasi esclusivamente chi è costretto ed è quasi impossibile che accada nell'orbita delle produzioni AAA.
Per realizzare un grande videogioco di successo, oggi, serve un'idea vincente, servono tanti soldi e c'è necessità di un'adeguata forza lavoro. Ma le idee sono sempre più spesso viziate dalla necessità di produrre guadagni, chi prende le decisioni punta prima di tutto a minimizzare i rischi, senza contare che in caso di vendite al di sotto delle aspettative a farne le spese è la sola forza lavoro, in una sorta di applicazione beffarda del teorema della rovina certa del giocatore d'azzardo.